Questo post può essere considerato complementare al precedente sulla tragedia del suicidio alla IULM ed è nato in risposta alla superficialità violenta, all'arroganza vertiginosa del commento che cito a seguire.1

No, questa non è una generazione di ipersensibili che non sanno gestire un brutto voto: chiunque abbia formulato commenti simili è stronzo, ma chi li ha solo pensati (o discussi con rispetto) potrebbe essere stato ingannato da un'illusione ottica. Un po' come quando si muove lo sfondo e la macchina immobile pare che viaggi spedita, così non è diminuita la resistenza di tanti individui alle sollecitazioni psichiche della vita quotidiana, al contrario, è aumentata drasticamente la pressione ambientale.

In un ambiente a gravità centuplicata, il tocco di una piuma può rompere i vasi riposti sul pavimento: così, in condizioni sfavorevoli, capita possa bastare una serie di bocciature per scatenare crisi profonde in un essere umano. A guardare altri vasi, magari protetti in teche di plexiglass, conservati ad alta quota, con riverniciature speciali, si potrebbe pensare sia stata tutta opera della piuma, della bocciatura. Ma un'atmosfera è fatta di tanti gas e ognuno esercita una sua pressione parziale. Sicuramente un pessimo ambiente universitario, l'insufficienza di sportelli per il sostegno psicologico, l'imbattersi in personalità accademiche indelicate ecc. può incrementare il malessere, ma chi non risolva totalmente il proprio orizzonte nella vita universitaria e cioè sente d'essere una persona al di fuori della propria performance accademica, costui sarà solitamente capace di metabolizzare lo stress, di ammortizzarlo. Anche se c'è chi ci va vicino, nessuno studente vive incapsulato nelle aule dell'Università. La situazione certamente si aggrava se a casa l'aria comincia a somigliare a quella delle aule, con genitori pronti a proporzionare l'affetto sulla base dei risultati; si complica ulteriormente se gli amici vivono di piccole invidie e competizione spietata; la pressione aumenta se i parenti, da tipici borghesucci, non fanno che fingere sorrisi mentre gareggiano a chi ha concepito i figli più "di successo" (che si misura solo dal potenziale guadagno, e poco importa se il futuro dottore o avvocato è un misogino molesto da quando aveva 15 anni)

Non so che immagine abbiate di questo studente preso in esempio, ma potrebbe anche non essere bianco o non essere un uomo o non essere abile o nessuna di queste cose insieme. Potrebbe essere la persona che si impegna più di tutte e scontrarsi da anni con un DSA mai diagnosticato. Lo spazio intorno sembra creato solo per l'Altro, si restringe, diviene asfissiante e, per proteggersi, ci si assottiglia, mentre scompare la fiducia che il futuro, prima dato per scontato, possa mai appartenerci, pure ipotizzando la laurea. Figuriamoci concepirlo senza! C'è chi parla di tutto un mondo meraviglioso là fuori per il quale non vale la pena mollare, a costo di abbandonare l'Università, e lo so che questa — invece — è una frase detta con le migliori intenzioni, ma avete provato a vedere quel mondo con gli occhi dello studente? Anche ipotizzando d'evadere dalle aspettative di tutti (cioè del proprio piccolo intorno, ma apparentemente enorme), da soli dove si potrebbe mai scappare? In un paese che, con l'indegna invenzione del "lavoro a bassa specializzazione", legittima lo sfruttamento spudorato? Con che spirito si dovrebbe abbandonare il percorso di studi per abbracciare un futuro di lavoro sottopagato, mentre si osservano amici e colleghi gioiosi, ritratti da fotogrammi su qualche feed social su cui compulsivamente si finisce per cercare un'occasione di distrazione?

E qui veniamo ad un'altra sorgente pressoria, che è la vita online, estremamente sottovalutata, ma che acquisisce un peso via via maggiore, tanto più l'individuo sente di non avere spazi fisici da abitare o persone vicine con cui parlare accanto a sé. I social agiscono da specchio deformante e processano le esperienze altrui sulla base dell'aderenza ad una serie di standard per massimizzare la permanenza sulla piattaforma (e quindi il profitto). Sentirsi indietro vuol dire anche aprire ogni giorno Instagram e trovare i propri amici "più avanti": in viaggio all'estero, ad un aperitivo insieme, al concerto, nel salotto della casa nuova, mentre la propria vita è totalmente bloccata, la propria volontà in briciole.

È chiaro che anche altri affrontano difficoltà, ma non basta esserne consci astrattamente: la dimostrazione fattuale d'essere "gli unici" ad essere stati lasciati indietro si trova lì, tutte le mattine davanti ai propri occhi; e la speranza di recuperare si fa sempre più flebile. Di questo parliamo: non di una bocciatura o di una lamentela del genitore, ma di perdere la speranza che sia possibile ritagliarsi un futuro; e col tempo subentra pure il dubbio d'averne mai avuto diritto. Da dispositivo d'evasione che era, la rete (delle Big Tech) si rivela l'ennesimo territorio ostile, ma coi tratti dell'onnipervasività, poiché fisicamente è possibile evitare il contatto con l'altro, mentre virtualmente è impossibile evadere dalla propria assenza. Come si giustifica il fatto di non essere lì fuori, in quel momento, ad immortalare tramonti, a divertirsi? Anche proiettare un'immagine felice di sé appare come un imperativo ineludibile, è pure quello lavoro che non si sta compiendo, che si somma al carico mentale. L'identità online ricorda un castello di sabbia costruito in riva: va continuamente rimaneggiato, aggiustato, o tutto il lavoro precedente rischia di scomparire nel nulla. Pian piano anche le energie per "recuperare" sul terreno virtuale si esauriscono e si può giungere ad evitare pure la pubblicazione di una cosa da poco, per timore che dall'altra parte qualcuno possa ricordarsi di chi ci sta dietro e porsi delle domande sulla generale inattività: "ah, sì, che fine ha fatto?"

Sparire diventa preferibile, nell'attesa di uno slancio che possa riscattare la propria immagine agli occhi del Grande Altro. Una preferenza perenne si fa prassi, e di modi per sparire ce ne sono tantissimi: col passare dei mesi, tutti possono divenire appetibili. Tutti.

Quelle che ho cercato di descrivere non sono solo sfumature di depressione, ma anche passi su sentieri autonarrativi suscettibili di capovolgimento: nel disprezzo della morale borghese, della bio (e necro-)politica, nel tentativo di costruirsi al di fuori del proprio curriculum. Se rovesciare uno stato di inerzia è già difficilissimo, certo non è una passeggiata deflagrare autonarrazioni: richiede inneschi, reti sociali, parole salvifiche e complica inevitabilmente la comunicazione con chi nel pensiero egemone sguazza o, per lo meno, non conosce altro. Persone che nulla curano oltre al proprio ego capisco non vogliano sforzarsi di ascoltare, e figuriamoci divenire nodi nelle reti sociali che citavo, ma almeno potrebbero graziarci del silenzio e risparmiarci le loro immani stronzate.

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Forse l'autrice non meritava attenzione, ma credo serbassi queste riflessioni sottopelle, per cui ogni commento "pungente" di questo genere è sufficiente a farle sgorgare con tutta la rabbia.