Viviamo in una società mediamente spaventata, una società così avvezza alla sicurezza da non saper gestire il rischio. Sono in molti ad averlo capito bene ed alcuni hanno anche imparato a sfruttare la paura: i terroristi, per esempio, sanno bene che è sufficiente colpire pochi di noi per scatenare mobilitazioni di risorse spropositate: raid aerei, improvvise militarizzazioni del territorio interno e bombe che diluviano dal cielo sulle case sbagliate in risposta a qualche pallottola ed un po' di videoediting ben riuscito.

Lo sanno bene anche certe file di sedie in parlamento che giocano con la cronaca e con la povertà per chiamare alle armi (purtroppo letteralmente) alcuni di noi. E si contano numerosi altri esempi, tutti possibili perché c'è chi non riesce ancora a sentirsi abbastanza sicuro, abbastanza protetto.

Aveva ragione Freud quando scriveva che «L'uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza»; e cos'è la "possibilità di felicità", se non la libertà di vivere un rischio? A molti, dopo una simile realizzazione, potrebbe subito scattare il comprensibile impulso di rifarsi all'inviolabilità della libertà e di rivendicare l'indipendenza sottratta dal mondo: accettare il rischio come un superuomo nichilista accetta la morte quale parte fondante del cosmo e non teme microrganismi letali, né devastanti tsunami. Eppure, quando gli animi si raffreddano, gli unici ad estendere queste rivendicazioni su tutto "senza se e senza ma" sono quelli che definiscono sacra la libertà solo quando sono impegnati a valutare la propria e non si fanno scrupoli nel calpestare le libertà altrui.

In fondo anche un bambino capisce che una società senza regole è una contraddizione in termini: si è liberi di girare per la città, vivendo nella paura di essere sparati? Si è liberi di guidare un mezzo, sapendo che le strade sono infestate da automobilisti ubriachi? Per ragioni simili non è ammesso fumare nei locali chiusi, guidare senza cintura di sicurezza, allontanarci dal luogo di un grave incidente senza soccorrere i presenti ecc. Sarebbe interessante approfondire quanto sia davvero la legge e la vigilanza ad incidere sull'aderenza a questi comportamenti e quanto siano invece i condizionamenti culturali interiorizzati o, ancora, la legge morale dentro di noi, ma si tratterebbe di un discorso lungo e complesso e rischieremmo di divagare un po' troppo.

Se è certamente ingenuo (o in malafede) il richiamo ad una libertà senza confini, è altrettanto vero che non va bene accogliere a braccia aperte qualunque obbligo o limitazione ci piova addosso: sia perché non è per niente facile disabituarsi ad una ginnastica d'obbedienza, sia perché c'è il rischio che questo non solo danneggi la democrazia, ma raggiunga pure il triste risultato di renderci anche un po' coglioni.

Ogni limite va accuratamente soppesato, criticato, passato al vaglio di tutte le opinioni strutturate che è possibile raccogliere e quindi ridotto ai minimi termini perché possa impattare il meno possibile pur raggiungendo i risultati sperati. Insomma, un divieto o un obbligo va concepito come un buon farmaco: deve essere selettivo, ossia evitare i bersagli non necessari. Dovrebbe quanto più possibile ricordare un magic bullet capace di farsi notare solo in virtù dei suoi effetti previsti e non per gli effetti collaterali indesiderati. E, per tenere viva la metafora, la norma andrebbe somministrata finché necessario e non oltre, correndandola di un buon foglietto illustrativo: stabilendo in termini univoci i limiti del limite riesce più semplice incentivare la collaborazione ed al contempo frenare spinte eccessivamente securitarie.

In questo caso l'elemento quantificabile utile a capire fino a quanto estendere l'obbligo potrebbe essere dato dal numero di contagiati per numero di abitanti, ma il risultato sarebbe tradito dalle variabilità nel campione e nel quantitativo di analisi. Potremmo anche pensare al numero di ricoverati per terapia intensiva, ma questo significherebbe arrivare ad avere cognizione del problema solo a settimane di distanza dall'inizio dei comportamenti incontenibili, che è un po' come misurare la strada che ci separa dal precipizio dopo esserci caduti dentro.

Passiamo alla selettività della norma: siamo sicuri di non calpestare i diritti di molti per contenere le scelte di pochi?. Bisogna tenere a mente che tanti cittadini non hanno ricevuto la propria dose perché semplicemente non in condizione di avere il via libera: chi per legittime precauzioni di medici basate sulla storia clinica del paziente; chi per documenti anomali o comunque poco inclini ad essere domati dai burocrati; chi per stati di gravidanza o allattamento (stati che non precludono la vaccinazione ma tengono le neomamme in uno stato di particolare apprensione) e chi per incapacità materiale di raggiungere i punti vaccinali (per lo meno quelli previsti dal loro piano). Parliamo in tutti i casi di nicchie di popolazione, non c'è dubbio, ma esistono e tutte insieme non costituiscono certo un gruppo trascurabile; considerato che il green pass avrebbe senso solo se esteso anche ai luoghi di lavoro, che sono dall'inizio della pandemia a oggi tra i posti più a rischio, ci troveremmo con molti di questi cittadini nella paradossale condizione di dover pagare per andare a lavoro, sottoponendosi a tamponi molto frequenti pur di riuscire a mostrare il documento richiesto.

Ancora un altro dubbio e poi veniamo ai numeri: del totale di persone ostili alla vaccinazione, quanti sono quelli praticamente monitorabili? Quanti davvero sotto l'occhio della vigilanza statale? Saremmo in grado di tracciare capillarmente i comportamenti dei non vaccinati che lavorano in realtà di provincia o, in generale, meno presidiate dalle forze dell'ordine? Se la risposta è "poco" o "molto poco", allora staremmo mettendo in piedi un costoso sistema di verifica e controllo al fine di forzare la mano di solo una parte del totale degli indecisi e degli ostili.

Credit: lavoce.info

Ma ammettiamo che il gioco valga la candela pur di piegare questa quota parziale di cittadini indecisi: di quante persone parliamo? Come riportato dalla testata La Voce, Secondo uno studio statistico che consta di tre rilevazioni ottenute dalla scorsa estate a oggi condotto dal laboratorio SPS Trend dell'Università di Milano, solo il 5% della popolazione si dichiara ad oggi intento a non vaccinarsi, accompagnato da un 8% di indecisi.

I dati mostrano anche come la percentuale di scettici sia via via diminuita da dicembre a oggi, probabilmente per una fisiologica constatazione della sicurezza del vaccino dovuta al contatto diretto con molti amici e parenti già vaccinati che hanno fatto da esempio per tutti gli altri e che fino ad un mese fa toccavano quota 35%. Come sottolineato in calce all'articolo, «l’attenzione che le posizioni anti-vaccini ricevono nel dibattito pubblico risulta più che proporzionale rispetto alla loro diffusione nella popolazione.», il che è davvero poco sorprendente, considerato che gli antagonismi costruiti a tavolino costituiscono il carburante principale di molta carta e molta TV da ben prima che ci investisse il fenomeno pandemico. Per una discussione più approfondita di questi dati si rimanda il lettore ai link relativi, ben più ricchi di dati e grafici. Prima dovremmo assicurare a tutti il sacrosanto diritto di accedere alla vaccinazione e solo dopo potremo discutere di eventuali obblighi con maggiore cognizione di causa. Il sospetto è che si stia discutendo più di un sommario, costoso e devastante raid aereo guidato dalla paura che della progettazione razionale di un magic bullet.