C'è una cosa di cui sono fermamente convinto ed è la seguente: i tribunali non sono il posto adatto per risolvere controversie di carattere scientifico. E questo non per incapacità di chi nei tribunali lavora tutti i giorni (avvocati, giuristi, giudici, paralegali...), ma perché la magistratura vive di un linguaggio che definirei non univoco, quindi ambiguo, suscettibile di interpretazione. E questo, a mio avviso, non è negativo: in campo legale abbiamo bisogno di potere reinterpretare i fenomeni alla luce del contesto, quindi credo che, seppure perfettibile, sia il linguaggio adatto allo scopo che si prefigge. Eppure tutto cambia quando questa ambiguità si riflette su questioni scientifiche come, ad esempio, quelle agroalimentari. Faccio riferimento all'ultima sentenza della cassazione nel merito della vendita di cannabis sul territorio italiano:

«...pertanto integrano reato le condotte di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della “cannabis sativa L.”, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante».

Fonte: Il Sole 24 Ore

E qui vengo al dunque: che diamine vuol dire, davvero, "drogante"? La questione, infatti, è tutta lessicale! Drogante significa in grado di provocare stati allucinatori? Significa in grado di alterare la percezione? Significa che è in grado di rallentare i riflessi? O che c'è una certa probabilità che inneschi meccanismi di tossicodipendenza/dipendenza?

¯\(ツ)

E chi lo sa. Un'altra cosa che non si capisce, in merito ad ognuna di queste domande, è quanto debba essere allucinatoria una sostanza per essere classificata come drogante; o quanto debba essere potenzialmente in grado di dare dipendenza; o a che dosi; o...

va beh, avete capito. Non c'è traccia di "numeri" da nessuna parte e, senza numeri a fare da paletti, potrei pure essere in grado di dimostrare che i gelsi hanno efficacia drogante. Mi basterebbe fare un estratto di gelsi, analizzarlo, scegliere un metabolita, sintetizzarne chili e poi fare qualche test coi roditori. Vogliamo vedere che qualche correlazione statistica decente, a forza di provare, non viene fuori? Ovvio, bisogna vedere a che condizioni.

Ma facciamo finta che tutto sia sottinteso e che le dosi siano quelle "d'uso", cioè quelle assumibili con le formulazioni tipiche (alias canna o... boh, muffin?). Buon senso vorrebbe che l'unica sostanza della canapa classificabile come "drogante" fosse il THC, anzi il delta-9-THC. E questo lo dico perché esistono ricerche che mostrano un potenziale di dipendenza (seppure inferiore a quello dell'alcool, ma comunque esistente), lo dico perché in grado di alterare la percezione, ma anche perché esistono evidenze (anche se ancora acerbe) di tossicità che correlano l'abuso alla comparsa di disturbi o disordini psichiatrici. Certo, potremmo anche aggiungere che non si spiega come mai i proibizionisti stiano zitti quando si parla d'alcool. Sarà che sono gli stessi che "non è domenica senza il grappino dopo pranzo"? Chi lo sa, ma è certo che quest'ultima domanda ci porterebbe lontano dall'argomento iniziale.

Per chiudere il cerchio, cosa ha detto la cassazione? Che la cannabis "light" (cioè la canapa industriale) può essere venduta in tutte le sue forme. Dire il contrario significherebbe sostenere che esiste nella canapa un'altra sostanza classificabile come "drogante", ma nessuno ne fa menzione ed il sospetto è che la cassazione abbia solo evitato l'ostacolo o, se preferite, tirato a qualcun altro la patata bollente, dando come risposta finale una riformulazione della domanda: "tolto il THC, c'è qualcosa di drogante nella cannabis?"

Problema insuperabile, finché non ci mettiamo d'accordo sul significato delle parole, dissipando le annose ambiguità.